Una delle esperienze più incredibili che ho vissuto in vita mia è stato il volontariato in Africa: le settimane che ho trascorso in Tanzania sono state così intense, soprattutto a livello emotivo, che ancora oggi non riesco bene ad esprimere quello che ho vissuto. Ma ci provo lo stesso, raccontando la mia esperienza e sperando che questo articolo possa essere d’ispirazione a chi vuole replicarla!

Partiamo dall’inizio: perchè un volontariato in Africa? Da anni volevo fare questa esperienza, dedicare del tempo in viaggio ad un progetto che potesse aiutare le popolazioni locali e nell’estate del 2024 questo mio desiderio si è concretizzato. Quando il mio capo in primavera mi ha detto di mettere giù le ferie, mi sono detta “è il momento giusto per fare volontariato” e così ho iniziato a cercare sul web. Le opzioni sono svariate: i programmi di volontariato in giro per il mondo sono davvero tantissimi e vanno dal supporto ai bambini nelle scuole a progetti di ricostruzione fino alla salvaguardia della fauna selvatica. Le destinazioni sono tantissime, soprattutto in Africa e Asia ma ci sono molti progetti anche in Sud America o in Marocco. Inizialmente era mia intenzione tornare in Nepal ma i programmi di volontariato che mi interessavano richiedevano alcuni mesi e, avendo le ferie contate, la mia scelta è ricaduta sull’Africa: non ero mai stata nella vera Africa e volevo vivendomela per la prima volta in un modo il più “autentico” possibile diciamo.

KARIBU FONDATION

A marzo avevo contattato una Onlus italiana che proponeva un bel progetto di volontariato in Zimbabwe ma dopo aver superato i vari step, mi hanno detto che l’epidemia di colera si stava intensificando e che sarebbe stato abbastanza rischioso partire, così ho ricominciato a cercare online, fino a quando mi sono imbattuta su un sito inglese che mette a disposizione diversi progetti di volontariato e ti permette di fare un’esperienza direttamente con una associazione locale della destinazione prescelta (ti spiego tutto su come organizzare un’esperienza simile in un post a parte). Considerando la situazione sanitaria, ho scelto un paese geograficamente distante dallo Zimbabwe e la mia scelta è ricaduta sulla Tanzania.

Ho scelto di partecipare ad un programma con i bambini, sul sito descritto in modo abbastanza generico, ma orientato alla childcare e all’istruzione. La città? Arusha, situata a 1.400 m slm. Così a luglio parto, con un volo dell’Ethiopian Airlines alla volta di Arusha. Il bello di questo portale inglese è che ti mette direttamente in contatto con un’associazione del posto, nel mio caso la Karibu Fondation. Questa associazione offre la possibilità di partecipare a diversi progetti, come la childcare (supporto all’insegnamento dell’inglese, supporto ai bambini disabili, ecc) o progetti di costruzione di scuole o ancora progetti in ambito medico. 

LA HOUSE

Arrivati alla House, incontro altri volontari, di ogni età e provenienti da diverse parti del mondo. La nostra House è molto modesta e si trova in una zona periferica di Arusha, precisamente in una delle zone più povere della città e quindi circondata di filo spinato: nella House ci sono due piccoli building disposti su due piani, dormiamo in 3/4 per stanza, su vecchi letti di legno e abbiamo un solo bagno in comune con tutto il piano, con un lavandino esterno e con dentro il wc e un sifone della doccia (tutto insieme), che spesso non ha l’acqua calda. Al centro c’è un giardino comune, con un tavolo da biliardo, qualche divanetto e un tavolo; la cucina è piccola, i pasti sono preparati da Miriam, che usa un bracere a legna per preparare i pasti e il menu è settimanale e fisso, fatto di pochi ingredienti come verdure, riso e uova (da vegetariana ho mangiato benissimo!), poca carne e tante, tante banane! I vestiti si lavano a mano, possiamo farlo noi in autonomia usando delle bacinelle di plastica che si trovano nel cortile oppure chiedere ad alcune delle signore che vengono li in cambio di pochi spicci. Ogni tanto arrivano bimbi dalle povere case che ci circondano, e stanno li con noi, per giocare o guardare la tv. Qui impari a vivere con poco, impari, quando torni la sera, che quello che hai nella House è una grande ricchezza ed è tutto ciò di cui hai davvero bisogno.

PRIME IMPRESSIONI

Appena arrivata ho capito il significato del pole pole, che più che una parola è uno stile di vita, quello africano, ovvero piano piano: infatti, in Tanzania si vive così, senza orari, senza programmi e, devo dire, è una delle cose che più manca di quel posto. Appena arrivata, mi sono ritrovata con altri volontari arrivati lo stesso mio giorno e nessuno sapeva come sarebbe stato organizzato il volontariato. Il giorno dopo, ci troviamo per fare colazione ed ecco che conosciamo Mark che, come referente, ci spiega che il primo giorno sarà di orientamento: ci porteranno infatti a vedere tutti i progetti e saremo noi a scegliere dove andare. Ed eccoci che partiamo: l’impatto è stato fortissimo.. Saliamo su un piccolo pulmino, e ci dirigiamo fuori Arusha, dove c’è solo una strada asfaltata principale e intorno piccole baracche e negozi improvvisati. Ecco che imbocchiamo le polverose strade laterali che ci portano ai progetti di childcare e che sono sostanzialmente 2, le scuole e gli orfanotrofi. Non so come esprimere quello che ho visto quel giorno, so solo che mi sono resa conto di quanto noi viviamo in una realtà piena di cose superflue e di come questi bimbi invece vivono con niente ma che per loro è tutto. Questi bambini infatti vivono nella povertà più assoluta ma sono pieni di vita e di gioia: si fanno bastare quello che hanno

La scuola pubblica che abbiamo visitato ospita circa 600 bambini che parlano solo swahili: qui la fondazione ha donato 100 tablet che a rotazione vengono utilizzati per insegnarli l’inglese. I bimbi hanno tutti la divisa ma vivono comunque in condizioni difficili: molti sono malati e la maggior parte non continua gli studi. Ma l’impatto più forte sono stati gli orfanotrofi: qui i bimbi vivono in condizioni davvero terribili, alcuni di quelli che abbiamo visto avevano malattie come la rabbia, ed è stato difficile vedere che erano di qualunque età, dai 3 anni fino ai 17 anni. Però, quello che mi ha colpito fin da subito è la loro spensieratezza: qui tutti i bimbi ti corrono sempre incontro con un sorriso, vivono con niente e sono felici. Mentre ero là, mi sembrava che il tempo si fosse fermato e nonostante la povertà disarmante, trovavo una serenità assoluta.

Il primo giorno abbiamo visitato diverse scuole e tanti orfanotrofi, e altrettanti ne incontravamo lungo la strada. Rientrati alla House, Mark ci ha detto che giornalmente potevamo scegliere dove andare, perchè come è evidente, serviva aiuto dappertutto: ho così optato per passare le mattina in una Nursey e di andare in un orfanotrofio al pomeriggio.

L’ISTRUZIONE E I PROGETTI 

In Tanzania esiste un sistema di istruzione pubblico e uno privato: le scuole pubbliche offrono istruzione fino ai 7 anni, in quanto il diritto allo studio è riconosciuto come diritto umano ma di fatto il sistema scolastico preclude a molti gli studi dato che la grande barriera è costituita dal passaggio dalla Primary school (dove si parla lo swahili, le nostre elementari per intenderci) alla Secondary School (dove invece si parla in inglese): meno del 30% riesce ad accedere alla Secondary school in quanto il test di ammissione è già in inglese. Si stanno però diffondendo altre scuole, le nursery, che insegnano l’inglese prima che i bimbi inizino la Primary school e sono private. Ma come fanno a permettersele? Ci sono gli sponsor: in un paese così povero, le donazioni permettono a questi bimbi di studiare. Chi vuole può “adottare” un bimbo e portarlo avanti con una sponsorship, fino a dove vuole, anche all’Università. All’orfanotrofio Osiligi per esempio, alcuni ragazzi sono ora in USA a studiare al college.

Io ho deciso di passare le mie mattinate in una Nursery per avere un rapporto più costante con i bambini e aiutarli con l’inglese, dato che le teachers (i maestri) parlano poco inglese. Sono stata accolta dalla Preside, Madame Anne (con la quale ho ancora oggi contatti), che mi ha inserito nella classe di Teacher Miuanahamis, una ragazza molto in gamba e davvero volenterosa di insegnare bene ai bimbi l’inglese. Uno dei metodi più utilizzati è quello visivo: le scuole sono tutte dipinte con numeri, animali, lettere, tutte molto colorate. La “mia” classe era composta da circa 30 bambini di 5 anni ed era la classe intermedia. Nelle Nursey infatti, i bimbi iniziano nella baby class (3-4 anni) per poi passare alla middle class (5 anni) per poi passare alla pre unit, che li prepara per le elementari.

UNA MATTINATA NELLA NURSERY

E così dopo la colazione, si partiva per la Nursery, che distava circa 15/20 minuti da Arusha: un pezzo di tragitto era in pulmino e l’ultimo tratto a piedi, all’ombra di giganteschi banani e avocadi. Appena entravo in classe, venivo accolta dai bimbi con un caloroso “goodmorning ticààà” (goodmoring teacher). Il metodo di studio prevede di fare esercizi di scrittura e speaking: nella mia classe c’era un quaderno dedicato ad ogni “materia”, come il quaderno dei numeri, il quaderno delle frasi, il quaderno dei disegni. La Teacher ogni mattina impostava una lezione di due ore, che trattava una specifica tematica, ripetuta nel corso della settimana per garantirne l’apprendimento (i numeri, le parti del corpo umano, gli animali, i vestiti, etc): appena arrivata, mi sedevo in fondo, in uno dei piccoli e stretti banchi di legno, vicino alla vivace Rabiel, allo scalmanato Sudas e alla dolce Faith, e man mano arrivano i bimbi per la correzione dei compiti a casa e poi durante la lezione, li aiutavo con gli esercizi che dava la Teacher. Tra gli esercizi più frequenti e per loro più difficili c’era quello che io chiamavo “number before and after“, ovvero dovevano scrivere o dire il numero che veniva prima o dopo un altro numero, ed era sempre un disastro! Per tenere attenti i bimbi, ogni giorno c’era il momento delle canzoni, che io adoravo perchè questi piccoli nanetti si mettevano a cantare tutti insieme allegre canzoncine in inglese e in shwaili.

Anche nelle classi vige il Pole Pole mood, quindi spesso i bimbi si perdevano a chiaccherare, si distraevano o ci mettevano un’eternità per fare gli esercizi. Però quando suonava la ricreazione, solo chi aveva finito si alzava ed usciva: chi non aveva finito, si prendeva il suo tempo e usciva solo quando aveva finito, senza che nessuno lo controllasse diciamo. Devo dire che i bimbi erano davvero educati e disciplinati in queste cose: salutavano sempre se una Teacher o un volontario entravano, aspettavano il proprio turno per mangiare ecc. Ah si, prima della ricreazione, la Teacher distribuiva il porridge! E i bimbi stavano tutti seduti ad aspettare il loro turno. Dopo la ricreazione nel grande cortile interno, ci si metteva diligentemente in fila per andare in bagno e dopo aver bevuto dalla “fontana” (ovvero un secchio d’acqua con un rubinetto), si rientrava in classe e si riprendeva la lezione, fino al pranzo: la Nursey era dotata di una piccola cucina. Il pranzo, servito in un secchio di plastica, per intenderci quello del bianco, aveva sempre dentro del riso accompagnato solitamente da fagioli e ogni tanto da un po’ di carne: le porzioni erano davvero sempre razionate e il primo giorno mi ricordo che mi misi a piangere perchè era un pasto davvero povero, che i bimbi aspettavano e che era sempre poco… Così ogni tanto con gli altri volontari portavamo qualcosa, tipo riso e fagioli. 

Verso le 12.30 la scuola finiva e i bimbi tornavano a casa, molti da soli, altri venivano portati ai rispettivi villaggi dai piki piki, motociclisti che in Tanzania sono tipo dei moto taxi (rigorosamente senza casco e con più di un passeggero). Il venerdì invece, ultimo giorno della settimana, non si faceva lezione ma i bimbi di tutte le classi si trovavano nel cortile interno per una mattinata di canti e giochi. 

GLI ORFANOTROFI

Come dicevo sopra, nei dintorni di Arusha è davvero pieno di orfanotrofi. Quando ti portano a visitarli, vorresti farti in mille per poter andare da tutti, ma non è possibile. Dato che i bimbi della Nursery andavano a scuola solo al mattino, al pomeriggio andavo al Faraja Orphanage: Faraja in swahili significa speranza. Per arrivarci ci si avventurava in una stradina sterrata piena di buchi, circondata da banchetti di frutta e piccoli negozi improvvisati. Al Faraja Orphanage ci sono tantissimi bimbi di tutte e età e, a parte qualcuno che vedevo ogni pomeriggio, è stato più difficile creare un legame rispetto ai bimbi della Nuersery perchè qui i bimbi sono molto più indipendenti. Prendiamo per esempio Joseph, di circa 7 anni (non sempre si sa l’età esatta): lui arriva da scuola, si toglieva la divisa, andava a prendersi un piatto nella bacinella dei piatti sporchi, lo lavava e poi andava a prendersi da mangiare dal grosso pentolone; tornava nel dormitorio, si metteva per terra e da solo si metteva a fare i compiti. Intanto arrivavano gli altri per chiamarlo per giocare a pallone ma lui prima voleva finire i suoi compiti e solo se non riusciva, veniva a chiedere aiuto. Altri invece, dopo essere tornati da scuola, si mettevano a lavare le stoviglie o a stendere i panni. Stavamo quindi dietro ai più piccoli, giocando ed intrattenendoli: a volte portavamo dei colori per disegnare altre volte stavamo fuori a giocare a calcio, ad 1,2,3 stella o a cantare canzoni. A volte andavo via contenta di essere stata con loro, a volte mi prendeva un senso di non poter fare a sufficienza per loro, che era disarmante. Come con Zadi, 17 anni, una vita al Faraja: diverse volte ho provato a parlarci ma non siamo andati molto in la.. Se ne stava sempre sulle sue, ci vedeva come i soliti volontari che dopo un po’ se ne sarebbero andati, che in concreto non potevano dagli molto. Che farà Zadi che ha quasi finito la scuola? Parla inglese, ha studiato, spero tanto che continui…. La vita dell’orfanotrofio non è semplice: ci sono delle signore che fanno la custodia ai bimbi ma di fatto i bimbi sono soli. Vivono in dormitori dove i letti sono spesso rotti, hanno pochi vestiti e le condizioni igieniche scarse contribuiscono al proliferare di malattie, come la rabbia e diversi funghi. I più piccoli capita che si facciano i bisogni addosso. I volontari aiutano nella gestione di questi bambini o nella costruzione di bagni, camere e sistemare le strutture e per fortuna alcune realtà, come l’orfanotrofio Osiligi, stanno funzionando davvero bene, garantendo ai bimbi anche di sentirsi una famiglia. L’ho percepito una sera, quando insieme ad un’altra ragazza siamo andati a preparare della pasta con i bimbi dell’Osiligi: è stata una serata bellissima, abbiamo cucinato tutti insieme e poi ci siamo seduti tutti allo stesso tavolo a cenare, proprio come una famiglia. Qui le signore che seguono i bambini sono più “presenti” rispetto ad altri orfanotrofi e i fondi che provengono dalle donazioni sono stati ben impiegati. Sarebbe bello se tutti gli orfanotrofi fossero così..

RILESSIONI 

Oltre a vivere a stretto contatto con i bimbi, questa esperienza di volontariato ma ha permesso di confrontarmi con gente del posto, capire come vivono, entrare nel loro mondo e vivere questo paese come non avrei mai potuto fare. Anche quando siamo andati a fare il safari (che racconto in un altro post), è stato molto “utile”, perchè è come se fossi stata riportata “ad un classico viaggio”, lontano dalla reale Tanzania. Quei giorni con altri turisti, mi hanno aiutato a capire di quante cose non abbiamo bisogno e di quanto quella esperienza mi stessa aiutando a lasciar andare il superfluo e a concentrarmi sulle cose davvero importanti, come un saluto, un sorriso, un gesto gentile, e come aiutare davvero gli altri. Ho visitato un villaggio Masai, ma è stato nella House che ho avuto l’opportunità di parlare con uno di loro, che mi ha spiegato come per loro sia uno stile di vita; ho visto meravigliosi branchi di zebre e paesaggi mozzafiato ma la vera bellezza che mi ha regalato la Tanzania sono stati i sorrisi dei bimbi e della gente che incontravo; siamo andati una sera a mangiare in un bel ristorante ma alla fine le serate migliori erano quelle davanti ad un semplice piatto di riso e verdure, guardando il Monte Meru dalla terrazza della House. 

Potrei scrivere pagine e pagine su questa esperienza ma credo che vada bene così: ci sono cose che non possono essere spiegate e a me basta averle vissute. Se posso dire: le foto sono belle sì, ma dietro quegli scatti c’è un mondo… Un mondo completamente diverso dal nostro, un’Africa dura, semplice, gentile, povera ma anche ricca di sorrisi, gesti gentili, abbracci…

Non sono tornata da questa terra con il classico Mal d’Africa: mi porto dentro la consapevolezza della grande fortuna di aver vissuto questa terra in modo unico, attraverso un’esperienza incredibile che mi ha regalato così tanto da non riuscire ad esprimerlo. 

Asante sana, grazie tante

 
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